La fotografia di per sè non ha alcun significato, è, al contrario, un significante. Una
moltitudine di segni linguistici che, attraverso l’atto del fotografare, permette di superare i
“classici” problemi quali inquadratura e tecnica, ad esempio, e fa giungere dritti al primo,
assoluto, fondamento della fotografia: lo sguardo.
Non importa quale macchina fotografica usiamo, quale focale abbiamo a nostra
disposizione, ciò che veramente importa in fotografia è la capacità di “sentire” gli odori, i suoni
e gli umori del territorio che solchiamo, qualunque esso sia.
Uno scatto che possiamo definire “buono” ha luogo nel gesto, ma prima, attraverso una serie di
esercizi di immaginazione e immedesimazione.
Il fotografo difficilmente è obiettivo poichè la sua forma mentis fotografica è diretta
conseguenza della sua alimentazione che ha origine dalle sensazioni legate alla
letteratura, alla musica, al territorio che viviamo, alle idee e persino alle utopie. Quindi, se non
per questioni puramente tecniche ed estetiche, la fotografia non proviene dalla fotografia.
Lo sguardo ha necessità di essere nutrito.
Lo sguardo va disintossicato.
Lo sguardo va sensibilizzato.
Lo sguardo deve essere riconosciuto e coltivato quotidianamente.
Immaginiamo dunque di avere in mano della dinamite e non avere i mezzi per farla
detonare. Alimentando, attraverso una molteplicità di stimoli, il nostro personale “sentire”
giorno dopo giorno, avremo fra le mani un calore tale da permettere allo scatto di venir fuori
per puro istinto, per un impulso che permette al fotografo di immedesimarsi talmente tanto da
essere invisibile, in un gioco costante fra il fuori e il dentro la scena che si intende ritrarre,
sempre ricordando che una buona fotografia, quella che permette alla nostra anima di vibrare,
non è frutto del nostro gesto, bensì ci è stata regalata e l’unico merito che possiamo attribuirci
è quello di averla RICONOSCIUTA.